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YOGA SUTRA

Yoga Sutra, i testi classici dello yoga, il pensiero filosofico dello yoga

La prima grande opera indiana che descrive e sistema le tecniche dello yoga è lo Yoga Sutra. Lo Yoga Sutra (aforismi sullo Yoga), la cui datazione resta incerta (200 a.C.), è un testo fondamentale per la disciplina dello Yoga. Il testo, attribuito a Patanjali, spiega attraverso una serie di sutra, come con il controllo di sé e la padronanza della mente e della sua attività (vrtti), si arrivi all'intima unione con la Divinità interiore. Il testo è suddiviso in quattro sezioni (pada). 

 

Nella prima sezione, Samadhi Pada, viene introdotto e illustrato lo Yoga come mezzo per il raggiungimento del samadhi, lo stato di beatitudine nel quale si consegue la liberazione dal ciclo delle rinascite (samsara). Nel sutra I.2 Patanjali definisce lo Yoga come soppressione (nirodhah) degli stati (vrtti) psicomentali (citta). Il termine citta è la massa psichica intesa come ciò che elabora l'insieme di tutte le sensazioni, dall'esterno e dall'interno. Vrtti vuol dire letteralmente vortice, cioè l'attività ordinaria della citta, continuamente trascinata dal pensiero e dalle sensazioni, quindi la soppressione degli stati della mente.

 

Cinque sono gli stati psicomentali: retta conoscenza (la mente, tramite la percezione, l'inferenza e l'autorità, produce pensieri non contraddittori), falso sapere (la mente costruisce pensieri non aderenti alla realtà), immaginazione (la mente si astrae dalla realtà e tenta di descriverla verbalmente), sonno (la mente elabora in assenza di oggetti concreti), memoria (la mente rievoca esperienze precedenti). La pratica costante permette di inibire questi possibili stati della mente, che sono l'ostacolo al raggiungimento del samadhi. Il samadhi può essere di due tipi, con seme o sostegno (samprajnata samadhi), e senza seme (asamprajnata samadhi). Il primo è quello in cui tutti gli stati psico-mentali sono ormai inibiti tranne quello che consente la meditazione stessa, nel secondo scompare qualsiasi forma di coscienza. Patanjali prosegue quindi descrivendo le quattro specie del samprajnata samadhi ( I, 42 – 51 ). 

 

Nella seconda sezione, Sadhana Pada, vengono descritti il Kriya Yoga (lo Yoga della purificazione) e l'Ashtanga Yoga (lo Yoga degli otto stadi, noto anche come Raja Yoga, lo Yoga regale). "Sadhana" ha qui il significato di “sentiero”, cioè quel percorso che lo yogin deve intraprendere per raggiungere la liberazione. Nel sutra II, 2 il Kriya Yoga è definito come quella disciplina la cui osservanza è in grado di eliminare gli stati dolorosi (klesa). Questi stati dolorosi sono cinque: ignoranza (avidya), sentimento di individualità (asmita), attaccamento (raga), disgusto (dvesa), volontà di vivere (abhinivesa). Questi stati dolorosi compiuti in questa e nelle precedenti vite, sono la causa del karma, e ciò che adesso facciamo influenzerà anche la posizione sociale, la durata e le esperienze della prossima vita. La avidya è la mancanza di consapevolezza della propria condizione. Essa è alla base di ogni altra sofferenza. Quindi Patanjali, continua con la descrizione di questo sentiero verso il samadhi con l'enunciazione dell'ashtanga (le otto fasi dello Yoga): Yama (regole di comportamento); Niyama (autodisciplina); Asana (posizioni fisiche); Pranayama (controllo della respirazione); Pratyahara (ritrazione dai sensi); Dharana (concentrazione); Dhyana (meditazione); Samadhi (unione del meditante con l'oggetto della meditazione).

 

Nella terza sezione, Vibhuti Pada, vengono descritte più dettagliatamente le ultime tre fasi dell'Ashtanga Yoga (dharana, dhyana e samadhi), ossia il samyama (dominio dello spirito) e vengono esposti i poteri (vibhuti) che è possibile conseguire con una pratica corretta: Dharana, o concentrazione, è il fissarsi della mente sull'oggetto su cui si medita; Dhyana è l'ininterrotta fissità della mente sull'oggetto; Samadhi si ha allorché, la mente si unisce all'oggetto. Questi tre, applicati insieme - dharana, dhyana e samadhi - formano samyama, o equilibrio, che si consegue allorché, scompaiono soggetto e oggetto.

 

A partire dal sutra III, 16, vengono esposti i poteri, come risultato della pratica del samyama. Concentrandosi su uno o più oggetti e quindi meditando su di essi e realizzando la congiunzione, lo yogin acquista poteri. Alcuni di questi vibhuti sono: conoscenza del passato e del futuro, conoscenza delle vite precedenti, conoscenza degli stati psico-mentali altrui, invisibilità, conoscenza del sistema solare, scomparsa della fame e della sete, levitazione, eccetera. Questi poteri però, non sono e non devono essere il fine dello Yoga, anzi solo il non attaccamento ad essi, permette di proseguire nel giusto sentiero.

 

L'ultima sezione, porta il titolo di Kaivalya Pada, "Kaivalya" vuol dire letteralmente “separazione” o “isolamento”, e si allude alla separazione fra spirito (purusha) e materia (prakrti). Nel settimo sutra di questa sezione, Patanjali scrive così:

 

7. L'azione, o karma, dello yogin non è pura né impura, mentre quella di tutti gli altri è di tre tipi: pura, impura e mista.

 

( Yoga Sutra IV, 7 )

 

Questa distinzione in tre parti del karma, ha una sua corrispondenza con le tre guna. Anche le nostre azioni sono perciò influenzate dai guna: impura (tamas), mista (rajas) e pura (sattva). Così non è per lo yogin che ha raggiunto la perfezione. Egli è al di là delle guna, il che equivale a dire che il karma, la legge di causa ed effetto, non lo vincola più, è libero. Nei successivi sutra Patanjali spiega che gli effetti o frutti delle azioni, passano da una vita alla successiva, avendo come substrato la memoria e presentandosi come desideri. Passato e futuro sono perciò reali come lo è il presente, gli stati del tempo corrispondono a differenti combinazioni delle guna, il cui gioco ha come effetto di produrre l'illusione del tempo. Dal sutra IV, 16, il filosofo si pone il problema del rapporto fra citta e purusha, fra il prodotto più evoluto della materia e lo spirito, cioè la citta non può conoscere se stessa. La citta è una, ma mossa da molte impressioni. La sua funzione ultima è e resta quella di agire per il purusha. Quando si sarà compreso pienamente questo rapporto, cioè la distinzione che sussiste fra i due, allora si potrà affermare di essere nel Kaivalya.

 

34. Kaivalya è quando il Purusa è stabile nella sua vera natura, che è pura consapevolezza.

 

( Yoga Sutra IV, 34 )

 

Lo yoga ci invita a non identificarci più con quello che normalmente consideriamo il nostro Sé, ovvero il corpo, i nostri pensieri, le emozioni, la nostra mente. La meditazione rivela la natura delle cose e il non attaccamento, fa sì che il legame tra "purusha", spirito e "prakriti", materia, venga spezzato.